Il concilio ecumenico e le aspettative di un giovane sacerdote

eravamo ragazzi ancora

nei nostri aquiloni i sogni mai morti

 

Ripeteva una canzona per gruppo Scouts: Eravamo ragazzi ancora, con il tempo aperto davanti/… legate allo spago le nostre speranze,/ nei nostri aquiloni i sogni mai morti. / Si alzano ora in alto, più in alto di allora le danze,/ restare confusi, il tempo ti afferra / scommetter sul mondo ma senza arroganza. /…. e c’è sempre chi dice: “state buoni ragazzi”…. / dietro grandi progetti mancati, / non è più il tempo di facili sogni, / i nostri aquiloni hanno i fili bloccati.

 

Ripenso spesso agli anni del Concilio ecumenico vaticano II e soprattutto a quelli del dopo Concilio, i miei anni giovanili, quando ero ancora studente universitario e poi giovane sacerdote, e subentra un naturale confronto con i momenti di vita di oggi e le nuove esperienze nella chiesa, nella società, nella cultura e nel modo di pensare e agire dei giovani e del clero di oggi.

 

Siamo stati ragazzi anche noi infatti, e sicuramente bravi ragazzi. Ora ormai adulti ripercorriamo i tempi in cui eravamo giovani sacerdoti e idealisti, e spesso ci rendiamo conto che forse eravamo anche tanto ingenui. Rientra nella normalità che il tempo di prima diventi passato e con esso tutto quello in cui abbiamo creduto e vissuto. C’è tanta poesia e nostalgia nella vita di ciascuno, ma talvolta anche tristezza e tanta amarezza. Mi rendo conto comunque che le nostre esperienze passate potranno continuare ed essere presenti fino a che attorno a noi ci saranno ragazzi e giovani che vogliono realizzare i loro sogni. Il tempo passa o è già passato solo quando noi ci sentiamo vecchi e delusi dentro.

 

giovani ideali sogni fatiche confronti

polemiche critiche passioni

 

Non vorrei dare un’impressione sbagliata. Non mi sento un prete stanco e deluso in carriera. Ma comprendo e mi giustifico che sono sicuramente ad una svolta nella mia esperienza di vita religiosa e sacerdotale. Un momento in cui ognuno di noi rilegge, riconsidera, ama rapportarsi con il suo passato ed esprime giudizi sul presente con un certo disincanto. E forse il mio giudizio sulle cose e le persone guarda più al trascorso, alle difficoltà, alle esperienze, alle obbedienze, ai momenti grigi, alla tristezza, e poco meno alle eventualità, all’inatteso, alla speranza e al futuro che ogni periodo storico promette.

 

Ho sempre desiderato da giovane uno stile di vita sacerdotale vissuta al limite, sulla soglia, nell’attesa, come un progetto diverso, discorde, sempre a rischio; mai come qualcosa di raggiunto, di soddisfacente, di acquisito, di scontato; anzi espresso con attitudine critica e talvolta polemica, con me stesso e con gli altri. Ho sicuramente preteso una vita impegnata apostolicamente, costruita sulle relazioni e meno sulla normativa canonica, volutamente semplice e ordinaria, con tanta nostalgia di vangelo. Non ho mai interiormente accettato che la mia vita fosse letta all’interno di un bollettino e come pagina in un diario  di una istituzione.

Sacerdote libero e senza collare. Ho sempre creduto che l’abito non fa il monaco. Non ho mai pensato fin dalla prima metà degli anni settanta, quando venni ordinato sacerdote dal papa Paolo VI con centinai di altri giovani, che la gente devesse riconoscermi prete dal mio modo di vestire, o dalla mia divisa di servizio, quasi che la mia fosse una professione. Lo avrebbero comunque letto e indovinato. Il sacerdote ha dei lineamenti e un suo volto specifico che viene riconosciuto anche dagli estranei e dai non credenti.

 

del Concilio mi rimane il sogno di una chiesa

più ricca di fede e di vangelo

 

Mi ritrovo oggi a vivere e condividere questa mia esperienza cristiana , religiosa e sacerdotale, condizionato e immerso in una cultura che considero fragile e provvisoria, emotivamente vulnerabile, sciupata dalla precarietà spirituale, da identità incerte e confuse.

 

E’ un rifiuto istintivo il mio per tutto ciò che sa di attenzione a far carriera e voglia di successo; per tutto ciò che sa di preoccupazione e ossessione per sentirsi autonomi e gratificati, suggestionati dalle ambizioni, dalla ricerca della visibilità, dal formalismo ecclesiastico, da una pomposità liturgica, da un’ eleganza esteriore, dal denaro, dallo stipendio, dalle ambizioni, dalla macchina, dalle amicizie influenti, dal cellulare ultima generazione, e poco propensi invece a sprecare un po’ del proprio tempo in compagnia degli altri, in casa, con i confratelli, con il prossimo, con i fedeli, con i giovani, con gli anziani, con i poveri, con Gesù Cristo; sempre meno disponibili alla condivisione, all’ascolto e al sorriso.

 

Mi rimane il sogno di una chiesa più ricca di fede e di vangelo, e meno di devozioni e normative; più profetica nel proporre una forma di vita e una cultura alternativa nella società odierna, e meno preoccupata per la gestione economica e manageriale; più attenta, partecipe e coinvolta a leggere i segni dei tempi e meno verbosa e ripetitiva nel commentarli; più evangelica e universale e meno clericale e vaticana, che la croce se la carica sulle spalle con affanno quotidiano e responsabilità, e meno sul petto come prestigio e ornamento. Mi rimane il sogno di incontrare tra i giovani, nuovi sacerdoti, meno preoccupati dei privilegi e più attenti alla fraternità, alla sobrietà e alla chiesa. (Cfr. A. Calò, Leggi alla voce disincanto, www.padreadamo.com,  Gennaio 2010).

 

la chiesa o è di oggi

o non è chiesa

 

Forse è proprio questo il messaggio che più mi rimane impresso dalla Chiesa conciliare. Il termine oggi acquistò significato particolare negli anni del concilio per noi giovani sacerdoti. In riferimento alla Chiesa e alla sua attività nel mondo, il termine oggi sembrava ormai richiesto da molti come categoria teologica. Il fatto che la chiesa  si presenti  come segno, suppone la necessità che essa sia un segno individuabile, percepibile dagli altri, interessante e, in determinati momenti e sotto alcuni aspetti, forse accettabile.

 

E’ legge di sempre che per dire qualcosa bisogna conoscere un linguaggio. Per dire qualcosa ad un altro, bisogna conoscere il linguaggio dell’altro. Per dire qualcosa al mondo – ricordare, annunciare, attuare – bisogna conoscere il linguaggio del mondo.

Al mondo di oggi, con il linguaggio del mondo di oggi. Si corre il rischio altrimenti di rimanere un segno incomprensibile, quando non nascosto; un segno indifferente quando non insignificante; un segno di tradizioni passate, quando non superate e rigettate; un segno di mentalità e di vivere borghese, o di una classe sociale o di una istituzione religiosa ormai decadente.

Una eventuale nuova impostazione della missione e del ministero ecclesiale deve riscoprire un compito essenziale, quello di mantenere un rapporto diretto e di attaccamento con la propria gente, quella di oggi, quella che frequenta le nostre strade e meno i nostri uffici, divenuti nel tempo sempre più anonimi e clericali.

Ritornare a ipotizzare una chiesa e un sacerdozio popolare e sociale, basato su un rapporto di fiducia con il popolo di Dio; un ministero vissuto meno come immagine, professione e carriera ecclesiastica e più invece come vocazione, vicinanza umana e dedizione. Superando quelle eventuali barriere normative e canoniche che rendono oggi particolarmente difficile, se non addirittura inesistente, la vicinanza tra la gente di strada e chi, come noi, cristiani e sacerdoti si è assunto il compito di intervenire sui disagi e sulle situazioni di povertà umana e di emerginazione sociale ed ecclesiale, un fenomeno che diventa sempre più complesso e di difficile soluzione.

 

Monsignor Lefebre

un vescovo dalle idee strampalate

 

Divenne notizia in quegli anni, i primi anni settanta, la questione Lefebre. E motivo di polemica quotidiana tra noi sacerdoti. Un vescovo che prendeva le distanze dalle decisioni del Concilio, soprattutto in merito alle innovazioni liturgiche. Era logico per me giovane sacerdote giudicarlo un  integralista dalle idee strampalate. In un mio articolo pubblicato in quegli anni esprimevo pubblicamente la mia posizione di giovane sacerdote al riguardo.

 

“… siamo convinti entrambi, tu vescovo ed io sacerdote, che oggi noi annunziamo e attestiamo lo stesso Vangelo, nelle varie lingue, con le varie sensibilità, nei vari contesti sociali e culturali; lo abbiamo attestato sempre nelle varie epoche del mondo. Noi siamo nati per questo: per salvare il mondo e salvarlo nell’amore. Anche Cristo nacque e nasce per salvare il mondo, e salvarlo nell’amore. In questo siamo siamo vicini a Cristo. In questo ti differenzi da Cristo. Di Lui il Vangelo cominicia a parlare quando Egli, il Cristo, si interessa personalmente del mondo, segue le sue vicende, partecipa alla sua storia. Di te i giornali e i rotocalchi hanno corminciato a parlare, quando tu hai proclamato che volevi estraniarti dal mondo, dalla sua storia, dalle sue vicende.

“Non è un’avventura rischiosa il camminare con il mondo: è scoprire invece e convincersi che il  mondo ha bisogno di noi, della nostra salvezza, della salvezza che Cristo ha donato a noi, e noi abbiamo il dovere di partecipare al mondo. E’ come far nascere nuovamente Cristo nella grotta; un modo di far partecipare Dio alla storia dell’uomo, di attirare l’uomo nella storia della Chiesa; è l’unico modo per rendere la storia, storia della salvezza. E’ anche un tentativo di trasformare la teologia cattolica, la nostra teologia cattolica, in Vangelo vissuto, quello vero, che Cristo aveva dettato e narrato con la vita e gli Apostoli avevano avevano annunciato e testimoniato con il loro coraggio.” (Cfr. A. Calò, Lettera a Monsignor Lefebvre e ai suoi amici integralisti, in Notiziario ROGATE, Anno II  No: 6     dicembre 1976)

ma la chiesa oggi ha forse

dimenticato il suo compito profetico?

 

Il Concilio Vaticano II più volte nella sua documentazione (cfr. LG, 44) e poi anche vari documenti successivi parlano di testimonianza profetica di fronte alle grandi sfide (VC, 84-95);  soprattutto l’esperienza di vita religiosa viene definita segno e profezia per la comunità dei fratelli e per il mondo (VC, 15).

 

Con il Vaticano II il termine stesso profezia venne a rinvigorire le aspettative che molti di noi giovani sacerdoti sognavano per un rinnovamento della Chiesa, una riscoperta della novità evangelica nel nostro dialogare quotidiano quasi in contrapposizione alle varie formulazioni dogmatiche e istituzionali, spesso astratte e sibilline, e ad uno stile di comunicazione formale ed ecclesiastico. Profezia per significare proposte alternative, innovatrici, talvolta scomode, nel contesto di una lettura critica e polemica della istituzione e dei soggetti che con essa si identificano, del loro modo di vedere e parlare della realtà e della storia. I profeti annunciano sempre qualcosa di nuovo, ove nuovo ha il sapore spesso di diverso, provocatorio; per questo essi nella vita restano ai margini della istituzione riconosciuta, sia civile sia ecclesiale.

 

Nel nostro quotidiano il linguaggio profetico si è forse attenuato? Quando la chiesa si configura come istituzione umana e si inserisce in un contesto sociale da cui trae, o intende trarre, gratificazioni, benefici e riconoscimenti, ecclesiastici, politici e di immagine, essa di fatto non stimola la profezia, pur riconoscendone forse nella documentazione ufficiale la validità.

Nei nostri ambienti ormai istituzionalizzati sentiamo urgente bisogno di nuovi profeti che sappiano far uso della profezia, come lettura e valutazione discordante dell’oggi della storia e del vivere quotidiano, una profezia che diventi feriale, come in altri ambienti è stata definita, e possano offrire proposte alternative, esprimendo in obbedienza allo spirito e in piena libertà di spirito, all’interno della istituzione chiesa e in polemica con essa quando necessario, una percezione di novità e diversità, una cultura alternativa e non soltanto o esclusivamente una rilettura e riproposizione di concetti e di immagini passate che non riescono più ad essere convincenti e condivisibili.  (Cfr. A. Calò, La profezia nel linguaggio quotidiano, in www.padreadamo.com, giugno 2009).

 

una generazione giovane

che la chiesa si affanna a capire

 

E che i giovani non riescono proprio a digerire.  Per diversi anni e in differenti ambienti mi sono occupato anche della educazione di ragazzi e giovani, non ultimo quelli provenienti da situazioni di disagio familiare e sociale, affidati a strutture educative su indicazione dei servizi sociali territoriali o su richiesta delle stesse famiglie di origine. Ho poi avuto la fortuna, di poter trascorrere in terra di missione alcuni anni della mia vita sacerdotale, un’ esperienza provvidenziale che mi ha concesso di incontrare, accogliere e seguire adolescenti e giovani in difficoltà.

E ho potuto conoscere e seguire nei particolari l’itinerario di crescita e sviluppo di molti di questi ragazzi che oggi sono giovani o adulti e scoprire spesso il delicato cammino umano e religioso che un ragazzo e un adolescente compie nell’instaurare e progredire nelle sue relazioni e impegni e cosa matura nel cuore e nella mente di un ragazzo e di un giovane nei momenti problematici della vita e come speso si senta estraneo nella chiesa.

I giovani ci obbligano ad un discernimento non facile, perché molte loro sfide e atteggiamenti inquietano e sconcertano. Intelligenti, immature, spesso spaesate ci appaiono le ultime generazioni, che la Chiesa si affanna a capire. Ragazzi da giudicare e lasciare da parte? Forse sono semplicemente ragazzi da amare. Cosa manca a questi giovani? Essi saranno il futuro della Chiesa se la Chiesa attraverso i suoi ministri saprà accoglierli e accompagnarli.

 

una chiesa invecchiata

che i giovani fanno fatica ad accettare

 

Credo sia nostro compito leggere il presente della chiesa con molto realismo e coraggio. E’ cambiato in molti aspetti il mondo che pensavamo di conoscere e di poter gestire, e sul quale avevamo investito la nostra missione apostolica, programmate le attività pastorali, strutturata la vita delle diocesi e delle parrocchie. Noi sacerdoti oggi siamo coscienti di vivere un tempo di transizione e che siamo all’inizio di un cammino in gran parte ancora da definire.

Non sempre la chiesa ha saputo cogliere il nuovo della società ed è rimasta a conservare nel tempo tipiche espressioni istituzionalizzate e sempre più arretrate. Penso di non essere tra i pochi sacerdoti che pensano che l’attuale cultura ecclesiale e la sua presenza nel mondo stiano diventando marginali. E’ venuta meno la fantasia apostolica.

Ne sono prova eloquente, la riduzione numerica dei cristiani che frequentano le nostre chiese, l’assenza quasi totale della generazione giovani, la riduzione o chiusura di attività e ambiti in cui i giovani erano soliti aggregarsi.

 

dare più attenzione

e spazio al popolo di Dio

 

Come rispondere a queste sfide?  Gli interrogativi e i problemi legati alla nostra società secolarizzata costituiscono per la chiesa e per i cristiani una nuova istanza per assumersi con responsabilità il proprio compito all’interno della società attuale.

Dal Concilio Vaticano II in poi, in una nuova visione di Chiesa quale popolo di Dio, siamo stati testimoni della riscoperta dell’ universale vocazione alla santità, e di un progressivo recupero del ruolo del laicato all’interno del popolo di Dio, come valore e dignità ecclesiale specifica, della sua natura, della dignità e della sua missione, riconoscendo al popolo di Dio, a tutti i battezzati, dimensioni e funzioni che pensavamo essere riservati ai consacrati: la funzione regale, la funzione profetica e testimoniale, la funzione sacerdotale e cultuale (cfr. L.G. nn.30-36).

Cambiano nel tempo i criteri di rapportarsi al mondo e alle persone e cambiano di conseguenza le forme di evangelizzazione. Da qui la necessità che una chiesa possa modificarsi nel tempo e scegliere percorsi sempre nuovi e rispondenti ai tempi. Non si tratta di snaturare la propria missione ma di rileggerla per attualizzarla, darle nuova significanza e completezza e dunque anche nuova credibilità ed efficienza, quando prendiamo coscienza  di un suo attenuarsi nel corso della storia, alla luce di nuove letture culturali e sociali.

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